Riflessioni sulla giornata dei familiari curanti

Il 30 ottobre si celebra la giornata dei familiari curanti. Personalmente trovo necessario fare alcune riflessioni.

Innanzitutto, la parola “curanti”. Unǝ curante presuppone ci sia qualcunǝ da curare, a cui badare. Tutto ciò che è autonomia, viene spazzato via. Curare, prendersi cura, è qualcosa di attivo su un soggetto passivo. Un’alternativa potrebbe essere “supportare”. Familiari supportanti: cosa evoca questo? Un’immagine differente: si esce dalla retorica del sacrificio per entrare in una visione in cui una persona ne supporta un’altra che però mantiene la sua indipendenza come persona, la sua autonomia, la sua libertà.

Un’altra riflessione che si apre è quella per cui le persone che necessitano di un supporto sono obbligate a riceverlo dalle proprie famiglie. Questo è problematico da più punti di vista: in diverse famiglie, le relazioni interne sono disfunzionali, a volte abusanti, e si rende la persona dipendente da questo genere di relazioni; chi non ha una famiglia, si ritrova abbandonatǝ, con soluzioni insoddisfacenti e lesive della libertà e a volte anche della dignità; per finire, il sostegno che i/le famigliari si trovano a dare è obbligato, non volontario, portando a stress, burn out, esaurimento, in un contesto che offre poco o nessun supporto.

Un ultimo spunto è quello del punto di vista: per certi argomenti, come l’autismo e la disabilità, nella giornata che celebra i/le familiari si dà spazio a questi ultimi, scartando a priori il vissuto di chi riceve queste “cure”. Nelle giornate dedicate alla disabilità, all’autismo e così via, lo spazio viene di nuovo dato in modo pressoché esclusivo alle famiglie, alle professioniste, a chiunque, tranne che ai diretti interessati. Manca sempre una voce. La voce dei “familiari curati da quelli curanti” è inascoltata.

In Ticino, per quanto riguarda l’autismo, è stata scelta la tematica della narrazione, naturalmente solo di un tipo di narrazione, senza spazio per narrazioni non coincidenti con le aspettative. Vorrei quindi riflettere in queste righe su questo.

Ci sono due tipi di narrazione che girano attorno all’autismo: da una parte c’è la narrazione del deficit, dall’altra la narrazione della diversità. Molto spesso, quando a parlare di autismo sono persone non autistiche, ciò che regna sovrano è il deficit, per cui la persona autistica ha un deficit nell’interazione sociale, un deficit a livello di funzioni esecutive, deficit qui e deficit là. La persona autistica, in realtà, ha un diverso funzionamento che agli occhi della maggioranza viene tradotto con deficit. Diciamo che l’autisticǝ ha un deficit di neurotipicità.

Questa visione parte dall’assunto che il funzionamento della maggioranza sia quello corretto. In realtà è solo più diffuso e quindi più condiviso, ed è utilizzato come base per la costruzione della società e delle sue norme sociali.

Manca però ogni riflessione sulla narrazione che di riflesso determina questo tipo di approccio. Pensiamo a genitori non autisticǝ che vivono i propri figli e le proprie figlie come deficitarǝ. Il messaggio che arriva è molto semplice: tu non vai bene così come sei. A te manca qualcosa che dovresti avere ma che non hai. Tu sei un peso, per me sei faticosǝ. Vai aggiustata, vai corretto, vai sistematǝ, in modo che tu possa essere accettatǝ, affinché tu possa essere amata. Se il proprio figlio non comunica verbalmente, se la propria figlia non guarda negli occhi, non significa che questo messaggio non arrivi forte e chiaro. Ancora viene raccontato che lǝ autisticǝ non provino emozioni, empatia, affetto, ma non è così! Semplicemente vengono comunicate in modo diverso.

Se per una persona neurotipica è difficoltoso comprendere le persone autistiche, la stessa cosa vale al contrario. Ma il messaggio per il quale sia indispensabile normalizzarsi per poter essere degni (guardare negli occhi, interagire con chiunque, reprimere lo stimming che è vitale e così via), quello viene compreso molto, molto bene, fino ad essere internalizzato diventando una propria voce interiore.

Ciò di cui ha bisogno una persona (autistica, non autistica, disabile, non disabile) è sapere che, in una società che la rifiuta costantemente, per la quale risulta sempre fuori luogo, sbagliata, c’è qualcuno per cui è perfetta così com’è. Sei degno del mio amore, sei perfetta anche se non parli, sei liberǝ di non guardare negli occhi, il tuo stimming va bene, puoi giocare senza che tutto sia terapia, vai bene così come sei e non ho bisogno che tu debba scimmiottare qualcun’altra: questa è l’occhio più bello in cui una persona possa rispecchiarsi e creare la sua personale narrazione, il suo senso di sé. Una narrazione in cui essere fierǝ di chi è, in cui c’è qualcunǝ che la supporta ed esige che il resto del mondo la rispetti, in cui può sentirsi amata in quanto autistica e non nonostante l’autismo.

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Descrizione immagine: un gruppo di elefanti in un fiume fangoso con forti correnti. Un piccolo di elefante sta su una pietra e un elefante adulto allunga verso di lui la proboscide per aiutarlo.

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